sabato 21 maggio 2011

2 APRILE 2011 SERATA INAUGURALE, L'IDEA POETICA COME SOTTRAZIONE DI PESO Conversazione sul libro di Mario Scippa, L'ANTIQUARIO E IL PROFESSORE.



L'idea del salotto nasce da alcune riflessioni su una frase pronunciata da un nostro ministro un po' di tempo fa. Una frase, che insieme ad una serie di provvedimenti legislativi, ha smosso il mondo della cultura in Italia.
I politici riflettono sui provvedimenti legislativi, io, da semplice intellettuale, attento alle parole e ai linguaggi, rifletto sulla frase. “Con la cultura non si mangia” disse il ministro.
Mettiamo che è vero, che con la cultura non c'è un ritorno economico diretto tale da soddisfare i bisogni primari dell'uomo come quello del cibo. Però anche se fosse così, ci dimentichiamo che la cultura è già, essa stessa, un nutrimento. La cultura è un nutrimento necessario per la mente e per lo spirito. Un nutrimento necessario come lo è l'acqua per il corpo.
Cultura, acqua. Sì! La cultura è come l'acqua!
La cultura ha la stessa caratteristica di ciclicità dell'acqua. Attraversa nel tempo, prendendone anche la forma, gli organismi, nutrendoli e arricchendoli per poi rilasciarli arricchita essa stessa di qualcosa dell'organismo che la ha ospitata.
E in questi passaggi ciclici, come l'acqua, la cultura contiene in sé la memoria del mondo e si sposta capillarmente all'interno di vasi comunicanti tra loro.
Questo salotto, non è altro che l'attivazione di uno di quei piccolissimi vasi comunicanti per far fluire liberamente cultura in un luogo che, difficilmente ad essa viene associata: un luogo deputato al commercio, un negozio.
L'incontro tra due diversi mondi: commercio-cultura. Un incontro che ha per finalità ultima quella di collegare energie ed immettere, in questo piccolo vaso comunicante, sinergie diverse ma condivise da chi come noi pensa che la cultura è indispensabile anche per dar vita a nuove idee che possono nutrire il corpo.
Il salotto, quindi come rapporto tra uno spazio dedicato al commercio e lo spazio mentale dedicato alla parola scritta.
A questo punto sembra essere inevitabile non accennare al mio libro L'ANTIQUARIO E IL PROFESSORE. Infatti il salotto altro non è che la trasposizione spaziale dell'idea espressa nel libro.
Nel libro i due personaggi si incontrano intorno ad un oggetto che nella loro mente, alchemicamente, si trasforma in una metafora dell'amore e del tempo. Il loro più che nella dimensione commerciale è un incontro che si svolge in una dimensione onirica, intorno ad una poesia.
Il passaggio dal libro al salotto mi ha fatto riflettere su alcuni concetti. Cultura. Acqua. Memoria. Vasi comunicanti. Una rete capillare di piccoli vasi per la condivisione della memoria, dei sogni, dei bisogni, delle illusioni, della trasformazione delle esperienze e delle emozioni in metafora, in poesia. Ovvero , tutti quegli elementi che mi riconducono al web, ad internet, e in particolare ai socialnetwork, nei quali da qualche anno sono abbastanza frequente con migliaia di contatti. Un luogo, virtuale, dove ho incontrato tantissime persone, attente e sensibili, alla parola scritta.
Scrivere.
Scrivere è una malattia e i miei amici scrittori, presenti qua stasera, sanno perfettamante cosa voglio dire. Come sanno anche che la medicina per questa malattia è la condivisione di ciò che si è scritto.
Io questa medicina l'ho trovata subito dopo che ho pubblicato il mio libro su internet, su facebook.
Oltre a pubblicizzarlo, attraverso la pubblicazione di link, video, citazioni, poesie e quant'altro su facebook si può pubblicare, davo sempre degli spunti di riflessione che rimandavano ogni volta ad argomenti trattati nel libro.
I personaggi costruiti nel libro partono da alcuni riferimenti fortemente autobiografici, per poi, nello sviluppo della storia, diventare ognuno di loro autonomi con una loro distinta personalità.
Questa cosa deve essere stata percepita dai miei contatti in rete, al tal punto che molti di loro dichiaravano, confidenzialmente, di conoscermi profondamente e che sarebbero stati ancora più felici di conoscermi di più e sapere cosa io avessi dentro oltre quello che già loro conoscevano.
Mi arrivavano tante domande, in chatt, per e-mail e tutte quante era in pratica riconducibili ad un'unica sola domanda: “Ma tu cos'hai dentro?”
Volevo rispondere ad ognuno di quei contatti, ma non lo feci. Non lo feci perchè rispondere in maniera diretta e istantanea era per me un po' come parlare, e io, come disse Calvino, scrivo perché non so parlare.
Allora decisi di scrivere un piccolo testoper rispondere a quella domanda. Doveva essere un testo che doveva mettere in luce in poche e chiare parole, quegli elementi in comune tra me e i personaggi del mio libro. Una sorta di sottrazione, di sgrossatura della complessità mia personalità e quella dei personaggi del libro, fino a far apparire chiaramente quali erano quei punti in comune, intorno ai quali erano stati costruiti quei personaggi del libro.
Quegli elementi semplici, ripuliti di tutto, erano quelli che profondamente mi appartenevano. Dovevo scegliere il linguaggio e la forma per esprimerli. Siccome io sono profondamente napoletano, e il mio linguaggio è profondamente napoletano, mi venne naturale scrivere quei piccoli versi in napoletano.
La domanda era: Ma tu cos'hai dentro?


Chell'cà teng'à dint'.

À dint'à me io nun teng'nient.
Nient'é speciale.
Niènt'é cchiù e quanto tu putiss' ammaginar'é mé.

Dint'é mé teng'solo chéllà cà'tenan à'dinto tutt'quant.
À Vita!
Chéllà passata e chellà c'addà ancora venì.

À dint' tengo
ò 'bben'è ò male.
O' Fuoco e l'acqua
Sì!
Puzzulente e prufumato.
O' mare!
L'addore de' limone.

Teng pur'è facce dà gente.
Comm'à chillu cuoll ruoss jè ricchini e donnà Giusuppina à Pezzecàt.

Teng pure à luce
cà sciuléa coppè é mur e chillu vico à do sò nato.
O' vico Lammataro',
nu' vico stritt'è luongo e vasci'à Sanità.

A dint' teng chella cèra.
Era e don' Michele Savarese!
n'omm ca faticava che suonn.
Scennev tutt' é juorn cu chella machina fotografica.
Diceva ca chella che le passava sott'all'uocchie era a Vita!
Era a Vita! Diceva,
e nun' za puteva fa passà accussì!

S'era mis n'capa che la doveva fermare!
È dall, è dall, ca nu juorn, abbasci'à litoranea,
annanz'à chelli sei criatur,
a vita soja, ò veramente se fermai.

A' dint a me teng' e Mane.
E mane'é patem'!
E' Mane, e chill'omm piccirill,
ca, da' matin'a' sera, steva chìato 'ncopp'ò scann'.
È che se fidav'é fà, cu chellì mane: 'ntagliav ò legno!
A me, à quent'er'criaturo, mi piacev sempe dé guardà.
Mentre faticav', me parlav',
sbruvignanem tutt'é mister' dò polzo e dò scarpiéll .
Ah! Chellì'man, che bellì'man!
Nu brutt'juòrne nà fetent'é malatìa cé ll'hà ciungàt!

À dint'à mè teng'à Pàur!
Chella nuttata! He! é chi si scord'cchiù!
Tenev'à pàur'è rommì'dà sulo dinto ò lettin.
Pàtemo m'aizaje 'ppe ll'arià
dicett' cà si nu'me passav', m'jettav' accopp'àbbascio.
Mamma mia chella'nuttat!
Me facett'luvà o' viziò e fujì dint'ò lietto suoje.
Ch'paur ca me mettett!
Nunn'ò guardaje dint'all'uocchié pé 'nà semmana sana.

À dint' teng'ò primm'ammor.
Ma è natur!
(Mò vuless proprio vedè chi è ca miezz a vuje nunn'o ten cchiù)
Còsa comune!
A me, senz'à fà mal'à nisciun, ogni tant
(quant'men mé l'aspett)
sàglie a galla!
Comm'è l'uocchije dé figljè meje
o chill'dà mammà'llor.
L'uocchie da' femmena cà mò voglio tanto ben'assaje!

À verità è ca dint é me
ce sta nà strana'pucundria.
À viv'è à cerc rerenn'miez a 'ggentè!
E guarde dint'alluocchj'è
(zittu, zitt')
nun mé faccio mai fujì nient.

À dint'à mé c'è stann cose comme 'ttante,
comun'à tuttì.
Ma, ch'àrraccontàt, cu'à parola giusta,
paran'cose prezios'è rar.

M.S.© copyright2011 MCN :: E8XYH-RALLM-6AAKK

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